La
rinuncia all’esercizio del ministero petrino da parte di Benedetto XVI ha
bisogno di ben più di un paio di giorni per essere com-presa, per essere presa
con sé. Appartiene a quel genere di eventi che chiedono tempi di
perlustrazione dilatati, decantazioni lente. È questione che chiede di entrare
in un dramma, perché ne è il precipitato.
Ed
entrare in un dramma non equivale né autorizza a scandagliare l’animo di
colui cui appartiene, ma il nostro. E proprio per questo rimando inevitabilmente
personale, si preferisce stare alla larga dal centro della scena, preferendo
piuttosto smarrirsi in angoli periferici, del tutto secondari e perciò innocui,
lontani dal proprio dramma personale.
Così si
preferisce la dietrologia al dato enorme di un dramma umano e spirituale. Non
mi interessano gli intrighi di palazzo, vedo che non possono essere
lontanamente sufficienti a sostenere una decisione di questo genere. Neppure il
decadere delle forze basta, quasi che il prenderne atto produca da sé solo
quella rinuncia che ancora risuona ai nostri orecchi attoniti.
Penso
alle fatiche e sofferenze che hanno aperto una domanda, hanno dato accesso a
una possibilità, quella estrema che sappiamo esserci ma sappiamo anche non
voler prendere mai in considerazione.
Penso a
cosa sia stato il vissuto di quest’uomo anziano che contemporaneamente vive la
sofferenza e la fatica per un ministero insostenibile, il travaglio di una sua elaborazione,
il fattivo e oneroso esercizio del ministero stesso.
Penso
alla solitudine inevitabile nella quale si affacciano e maturano le decisioni
più grandi, quelle che attingono a radici e ragioni che sono chiare solo a
colui cui appartengono, che rimangono in-spiegabili a chiunque altro,
intuibili solo da chi – a modo suo e per ragioni sue – ha dovuto attraversare qualcosa
di analogo – per quanto non possa esistere analogia alcuna e nessuno possa dire
“ti capisco”.
Penso
alla solitudine sconosciuta che attende l’inedito di un tempo da “ex”, “già”,
“emerito”.
Penso a
quale onestà intellettuale e quale caratura spirituale occorrano per non
contrabbandare il rimanere con la fedeltà: costa molto meno continuare che
rinunciare, è noto.
Quando
penso a tutto questo provo solo ammirazione, intuisco di venir fatto parte di
un terreno intimo e personale, sento il fremito che è solo dell’umano quando
irrompe.
È il
sussulto dell’umano che rimane irriducibile a ogni ruolo, che sgretola i miti
che di continuo ci costruiamo (con le vita altrui), che non teme di smentire e
irridere – mostrando il suo volto – quella ridicola sete di ridicoli eroi che
attraversa ogni tempo e ogni istituzione.
Questo
umano che esiste fin dalla fondazione del mondo e che in questa rinuncia
irrompe con genuinità è proprio una bella notizia, proprio un Vangelo.